venerdì 20 marzo 2015

Archetipi e stereotipi nei miti delle fiabe

Illustrazione di Matilde Domestico
L’archetipo, in filosofia, è il modello primitivo delle cose. In psicanalisi, secondo Jung, è il contenuto dell’inconscio collettivo, cioè le idee innate o la tendenza a organizzare il pensiero secondo modelli ereditati dalla nostra cultura. L’archetipo non è un modello rigido, ma muta lentamente con l’evolversi della società, mentre lo stereotipo è la parte più fossilizzata dell’archetipo ed è spesso alla base di molti pregiudizi sociali. 
La crescita psicologica di ogni bambino è fortemente condizionata dagli archetipi e dagli stereotipi. 
Nello sviluppo della personalità i processi di identificazione e mitizzazione sono importanti. Nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza il processo di mitizzazione riguarda persone con cui il bambino è in relazione (genitori, insegnanti, parenti, amici), personaggi socialmente affermati (cantanti, attori, sportivi), eroi della narrativa letteraria o filmica.
Nei processi educativi gli archetipi andrebbero riproposti con letture diverse più consone a un ambiente socio-culturale mutato negli anni. Ma, se gli archetipi per la loro natura dinamica, permettono una vasta gamma di figurazioni, gli stereotipi si presentano come modelli poco flessibili e adattabili, irrigiditi da uno schematismo che non permette rielaborazioni.
Proviamo a fare un esempio: il mito del Principe Azzurro nella fiaba di Cenerentola.

Lo schema archetipo di questa fiaba è molto radicato nell’immaginario collettivo. Il binomio Cenerentola/Principe Azzurro ha generato lo stereotipo della coppia felice grazie all’unione di bellezza e ricchezza. Questo stereotipo è lo stesso ripreso da altre storie come “Pretty Woman” che fanno sognare e rinnovano la rassicurante proposta infantile della fiaba, senza impegnare troppo la nostra riflessione, senza costringerci a imbatterci in modo più maturo, attivo e consapevole nei confronti dei nostri problemi esistenziali. 
In tal modo, la storia si riduce a una vicenda di pura fortuna, per cui una ragazza povera, per merito della sua bellezza, ottiene una rapida e inaspettata ascesa sociale. In questa forma, la narrazione volgarizzata genera la “sindrome di Cenerentola”, dove il successo della protagonista è legato alla sua capacità di sedurre e la sua identità viene definita dal divenire sposa di un uomo ricco e potente. In questo modello stereotipato, l’affermazione personale e sociale della donna è nelle mani dell’uomo che, con il legame nuziale, eleva la sua identità femminile. Questa chiave di lettura che fa sognare il “Principe azzurro” determina in qualche misura un modello di carriera femminile “mercificato”.
La fiction che si colloca su un piano favolistico ci permette di fruire di messaggi consolatori, ma se è vero che le fiabe aiutano i bambini a crescere, è altrettanto vero che le fiction relegano spesso gli adulti in un mondo infantile. 
Nell’inconscio di molti adulti il mitico Principe è ancora atteso e non solo per ripagarci di ciò che ci è stato negato, ma anche per rivelare la nostra identità ancora nascosta sotto gli stracci di Cenerentola.
Una più corretta interpretazione delle figure mitiche che prenderanno posto nell’inconscio del bambino e in parte influenzeranno le sue attese esistenziali, lo aiuterà a non maturare lo sconforto se sogni e prodigi non si compiono e a sviluppare una personalità adulta che non ha bisogno dell’altro per affermare la propria identità. 
Quindi, poiché l’archetipo ci consente varie chiavi di lettura, è opportuno rileggere le figure mitiche, non affossandole in stereotipi volgarizzati, ma ponendo l’accento su virtù, sensibilità e aspetti non troppo legati alla fortuna.
Rossana d’Ambrosio

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